Terzo piano

M

amma, mamma cara. Di questi giorni di lungo silenzio non ho nulla da raccontare perché tu già sai. Mi trovo in grande difficoltà, non saprei da dove cominciare, sono davvero imbarazzato. Ora tutto mi è chiaro, cancellati i dubbi; il tuo messaggio è stato recepito. Negli ultimi tempi ero tornato a disprezzarla questa pseudo-vita, confidandomi con le persone a me più care; niente di nuovo, lo stesso disappunto che non esitavo a manifestarti nei momenti peggiori. Quel gesto della pistola puntata alla tempia, il disagio di dover sopravvivere alla tua assenza, lo sconforto e l’unica soluzione possibile: me ne vado anch’io. Quando sono entrato in reparto, la febbre mi ha impedito di pensare e non appena recuperato un minimo di lucidità, le cose hanno cominciato ad acquisire un senso ben preciso. Avevo giurato a me stesso che non sarei più tornato in quel Pronto Soccorso perché i ricordi peggiori quando riemergono, lo fanno con una forza inaudita. La vita è questa, per quanto ci sforziamo di capirla, non riusciremo mai nell’intento. Mi sono affidato a te e alle mie sensazioni, lasciandomi andare di tanto in tanto al pianto per stemperare la tensione e scacciare gli attacchi di panico. Ho avuto (tuttora ho) paura. Quanto basta per capire cosa voglio. Sicuro di voler abbandonare tutto? No mamma, non sono più sicuro di questo. Ho visto tante “mamma” in quei letti delle stanze al terzo piano. Quando riuscivo a fare due passi nel corridoio, mi voltavo ad osservare i pazienti. Alcuni si lamentavano sempre, altri in religioso silenzio. Io cercavo di non dare fastidio alle infermiere, come facevi tu. Ti ho visto, sentito. La prima cosa che ho fatto, appena libero, è stato venire da te. Scusa se ho pianto come un bambino. Inizia un altro percorso, l’ennesimo. Dai mamma, prendiamoci sottobraccio e supereremo anche questa montagna. Un abbraccio.

Lascia un commento